sabato 24 marzo 2007

Valori da vivere: le sfide della bioetica



Eutanasia o dolce morte: atto d'amore o delitto?

Negli ultimi anni alcuni Paesi hanno intrapreso la strada della legalizzazione dell’eutanasia: emblematico il caso dell’Olanda, che nel 1993 ha reso non punibile la condotta del medico il quale somministri la morte su richiesta, rispettando determinate procedure. Negli Stati Uniti è lo Stato dell’Oregon ad aver varato una legge permissiva avallata da un referendum; ma la normativa è attualmente sospesa, al vaglio della Corte Suprema. Infine, un caso in contro tendenza: in Australia, l’eutanasia è diventata legge per poi essere abrogata nel giro di pochi mesi.
In Italia, eventuali condotte eutanasiche ricadono all’interno delle previsioni contemplate dal codice penale per la fattispecie dell’omicidio: nel caso in cui la morte sia stata causata in assenza di richiesta da parte della vittima, si applica l’art. 575 c.p.. Nel caso invece la morte sia stata richiesta dalla vittima, la pena è quella contemplata dall’art. 579 (da 6 a 15 anni di reclusione). Va detto che in ogni caso, sull’entità della pena possono incidere in maniera rilevante le circostanze soggettive dell’azione (aggravanti o attenuanti).
Esprimi la tua opinione e le tue considerazioni in merito (massimo 70 parole) entro il 28 aprile proponendo del materiale di approfondimento a sostegno della tua tesi.

24 commenti:

Chiaretta4D ha detto...

"Bisogna rispettare la libertà del paziente" si ripete spesso da parte dei sostenitori dell’eutanasia.Io penso che prima di dire se l'eutanasia è giusta o sbagliata bisogna cercare di capire quale sia il vero valore della vita dell'uomo. La vita è un dono di Dio e non spetta a me giudicare se essa sia utile oppure meno. E' proprio per questo motivo che sono contro l'eutanasia!Anche se è difficilissimo, e me ne rendo conto, accettare il dolore credo che la vita abbia un valore immenso e come tale non può essere sottovalutato: una persona che ama se stessa e la sua vita, per quanto non ne possa più del dolore, vuole continuare a vivere sino all'ultimo respiro, perchè questa è stata la volontà di Dio.Perchè quindi non lasciarle questa opportunità?Ecco perchè credo che spesso ci si dimentichi dell'importanza della nostra vita, dandola per scontato e tralasciando i valori che la caratterizzano.

sweet.pepper ha detto...

Io sono favorevole ad una legge che legalizzi l’eutanasia, sarebbe quasi un atto di pietà nei confronti di non vuole più tollerare una condizione di sofferenza che impedisce di vivere pienamente la vita. Non si tratta di giusto o sbagliato ma di dare ad ognuno la possibilità di fare autonomamente le proprie scelte. Inoltre una legge del genere non toglierebbe nulla alle persone contrarie all’eutanasia darebbe solo un’opportunità in più a chi si sente intrappolato in un corpo che non gli appartiene e ha scelto di non continuare a soffrire.

moka4a ha detto...

ognuno è artefice del proprio destino.
gli uomini mascono con il diritto alla vita...e alla morte.
chi siamo noi per impedire che un uomo, lasciando un regolare testamento biologico, decida cosa fare di se stesso?
purtroppo si arriva, alle volte, a raggiungere un livello di vita...che non è vita. e in questo caso, credo sia umano, e dovere di tutti noi, che la persona in questione possa scegliere. lo vorremmo per noi stessi, perchè non volerlo anche per gli altri?

rosy4a ha detto...

io credo che la libertà di decidere se vivere o meno spetti solo ed esclusivamente alla persona cui appartiene la vita. come una persona (anche non malata) non viene perseguita legalmente se tenta di uccidersi, lo stesso trattamento dovrebbe essere utilizzato con dei malati che decidono di farlo in un letto d'ospedale. nessuno di noi vorrebbe la morte, e se qualcuno decide di morire significa che un motivo esiste. questo ovviamente per quanto riguarda i malati coscienti; per quelli incoscienti o addirittura in stato vegetativo credo che il problema non si dovrebbe neanche porre, l'unica cosa che serve è un pò di ragionamento: va bene che dio ha dato a tutti la vita ecc ecc, ma tutti i credenti che sono contro l'eutanasia dovrebbero pensare al fatto che un respiratore artificiale non è un "frutto di dio", ma solamente un modo creato dall'uomo per prolungare il dolore di tante persone che non riescono a considerare vivo il loro caro, ma non riescono neanche ad accettare la sua morte.

Debby ha detto...

di sicuro penso che l eutanasia sia un problema bioetico di grande complessità in quanto ci mette davanti ad un notevole bivio:pensare come uomini "moderni" difensori di una libertà che ci induce a credere di poter fare della nostra vita ciò che vogliamo,o pensare come cristiani la cui morale dice che rinunciare alla vita è una grave colpa.ma a questo punto...si puo davvero chiamare la situazione con cui molti uomini devono avere a che fare...vita??è vita,nei casi gravi come quello di Welby,il solo poter osservare?poter osservare il tempo passare senza avere il diritto di poterlo "trascorrere"..senza aver il diritto di decidere di non volere piu "osservare"?..quindi io sarei favorevole all approvazione dell eutanasia solo quando questa è dettata dalla scelta del paziente stanco di dover soffrire in modo alquanto disumano..ma d altra parte devo dire no ad un eutanasia dettata da calcoli economuici o dall egoismo dei parenti o delle terze persone.

Ale 4a ha detto...

L'eutanasia dovrebbe essere un diritto del malato quando questo non ha più speranze di sopravvivere e sta soffrendo talmente tanto da non poter considerare dignitoso vivere ancora. Perchè far soffrire inutilmente una persona che comunque non vede più una sola speranza davanti a sé? Perchè non lasciarlo morire dignitosamente lasciando a lui la scelta di decidere quando andarsene?

vally4A ha detto...

Per conto mio sono a favore dell'interruzione delle cure ai malati terminali che vivono una situazione tale da non poter più controllare e sopportare il proprio corpo.è difficile amare e accettare la propria vita quando questa ti imprigiona in un letto d'ospedale. d'altro canto però accettare una legge sull'eutanasia comporta il rischio di non sapere dove sia la barriera che separa i casi dov'è davvero necessaria la dolce morte,da quelli nei quali può essere invece evitata.

Cry4a ha detto...

La vita è senz'altro un bene inviolabile, però quand'è che può ancora essere considerata vita? Essere costretti, anche per anni, su un letto d'ospedale attaccati ad un respiratore artificiale può ancora essere definito "vivere"?
Quando il peso della vita diventa insopportabile bisogna chiedersi se sia ancora giusto costringere qualcuno a protrarre quest'inutile sofferenza. Inoltre sono d'accordo con quello che ha detto sweet.pepper riguardo la legalizzazione dell'eutanasia. Essa infatti non costringe nessuno ad effettuare questa pratica, ma da semplicemente la possibilità a chi si trova in quelle condizioni di porre fine alle proprie sofferenze. E' giusto che anche quelle persone abbiano il diritto di fare le proprie scelte, perchè c'è un limite oltre il quale la scienza e la tecnologia non dovrebbero mai spingersi: il rispetto della dignità della vita umana.

saretta4a ha detto...

Sono favorevole ad una legge che renda legale l'eutanasia poichè essa dovrebbe essere un diritto di ogni cittadino. Infatti credo che ogni persona che sia costretta a vivere in pessime condizioni di vita e che debba sottoporsi ad inutili ed estenuanti cure, dovrebbe avere la possibilità di porre fine alla sua vita se egli non la considera più tale.
Anche se sono consapevole del fatto che la vita è un importantissimo dono di Dio, ogni persona è libera di fare una propria ragionata scelta e per questo credo che ognuno di noi abbia il diritto di decidere ciò che giudica migliore per se stesso.

carlotta4A ha detto...

Personalmente non mi sento in grado di prendere posizione riguardo una tematica tanto importante quanto individuale. Credo da una parte che si debba rispettare la volontà del paziente, ma è altresì vero che è molto difficile stabilire la santità mentale,in certi casi, dell'interessato. Per quanto riguarda la posizione presa dalla chiesa, invece, che mira a preservare il valore che la vita assume, mi trovo d'accordo in parte,in quanto, in situazioni particolari, non ritengo giusto tenere in vita una persona esclusivamente in stato vegetatvo. Per tanto bisognerebbe riuscire a trovare un compromesso fra le due tipologie di pensiero, rispettando la volontà indivuduale ma senza tralasciare i valori strasmessi dalla chiesa.

Liliana G ha detto...

Alla sera della vita: tra interrogativi etici e suggestioni culturali





Una premessa



Prima di accostarsi al tema dell’eutanasia e dell’etica di fine vita credo sia necessario un doveroso atto d’umiltà: la sofferenza è sofferenza, e come ha detto Giovanni Paolo II essa rimane un “mistero intangibile”[1], un carico così pesante di dolore e di prostrazione che talvolta può addirittura spingere ad invocare su di sé la morte. Mi piace introdurre questo tema pensando all’umile gesto di Mosé, che davanti al roveto ardente si toglie i sandali e si vela il viso al cospetto della santità divina (Es, 3, 5-6). Accostarsi al capezzale di un morente significa davvero entrare in un “luogo santo”, dove il turbine emotivamente scosso dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti esige innanzitutto di farsi ascolto e preghiera.

D’altra parte, nell’affrontare una qualsiasi tematica eticamente sensibile, non bisogna esagerare nel “problematicismo” fine a se stesso, come se il carico emotivo preponderante ci rendesse d’improvviso muti e privi di qualsiasi argine razionale.

In realtà, anche nell’affrontare il delicato tema dell’etica di fine vita, pur facendoci accompagnare dal “basso continuo” delle nostre emozioni, che non smettono di dichiararci rispetto e delicatezza, non ci si può esimere da un esercizio critico della nostra ragione, da un vaglio lucido degli argomenti che ci permettono di non dimenticare l’arte di discernere il bene dal male.

Convinti come siamo che nell’esercizio della ragione risplenda l’aspetto più nobile dell’essere umano, non rinunciamo ad intraprendere il faticoso cammino del concetto, e a fissare qualche appunto che ci auguriamo possa aprire uno spiraglio di luce sulla via della riflessione.



Alcune distinzioni concettuali



Nell’affrontare un qualsiasi tema di carattere filosofico e bioetico è buona norma partire da una chiarificazione linguistica e concettuale dei termini in questione, per cercare di evitare fraintendimenti ed incomprensioni preliminari; lo stesso metodo sembra imporsi nel campo dell’etica di fine vita, dove una certa confusione linguistica, dovuta anche a ragioni di incrostazioni ideologiche, regna sovrana.

Sarà pertanto utile partire da una chiara definizione di eutanasia[2]: “Per eutanasia s’intende un’azione o un’omissione che di sua natura, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore”[3].

La distinzione tra “eutanasia attiva” e “eutanasia passiva” risulta pertanto inutile e fuorviante; ogniqualvolta ci sia l’intenzione diretta di uccidere una malato, mediante un’azione o un’omissione (per es. sottrazione di cibo o una volontaria mancata rianimazione) si profila un gesto eutanasico.

Il giudizio morale su questo atto è chiaro: è sempre gravemente illecito uccidere una persona innocente, anche se lo desidera.

Si parla a questo proposito di “indisponibilità’”, “intangibilità” della vita umana: la vita umana è il bene fondamentale, quello che sorregge tutti gli altri diritti, e per questo non può essere “messa a disposizione”, non può essere violata a piacimento né da se stessi né da altri.

Dall’eutanasia va invece distinto il concetto di morte con dignità: se con tale espressione si intende il desiderio di essere accompagnati nel momento finale della vita con serenità e affetto, senza dolori insopportabili, grazie anche ai relativi analgesici, il diritto ad una morte degna è non solo lecito ma anche da tutelare.



Altra cosa è l’accanimento terapeutico: con tale espressione si intende l’uso sproporzionato dei mezzi terapeutici rispetto alle condizioni e alle aspettative di guarigione del paziente. E’ questa una valutazione che deve essere fatta su un piano prettamente medico-scientifico, qualora si profilasse un tipo di terapia eccessivamente gravosa e costosa, inutile rispetto alle aspettative di vita del paziente (es. la rianimazione di pazienti agonizzanti o in morte encefalica): in questi casi più che un beneficio le terapie sortirebbero l’effetto di un peggioramento delle condizioni del paziente[4].

Il giudizio morale sull’ accanimento terapeutico è ugualmente chiaro: non solo è da evitare, ma è gravemente illecito, perché non conforme con la dignità dell’essere umano giunto alla sera della vita.

In realtà, a ben vedere, eutanasia e accanimento terapeutico rispondono ad una stessa logica: l’idea cioè dell’ “onnipotenza” dell’uomo, il quale, con l’aiuto della scienza e della tecnica, si sente padrone della vita umana, anticipando il tempo della morte o ritardandola a suo piacimento.



Tra eutanasia e accanimento terapeutico si profila una “terza via”, sempre lecita e auspicabile, che può essere definita accompagnamento al morente. Con tale espressione si intende l’assistenze al paziente terminale tramite le cure ordinarie, che sono sempre doverose (per es. alimentazione, idratazione, detersione delle ferite…), tramite eventuale terapia del dolore e tramite quell’assistenza familiare, psicologica e spirituale di cui necessita il malato per accettare serenamente gli ultimi momenti della sua vita. E’ statisticamente provato che quando il paziente si sente inserito in una trama di relazioni significative e umanizzanti col medico e coi familiari, la domanda eutanasica tende pressoché allo zero[5].

Va ricordato a questo proposito che la medicina non sempre può guarire ma sempre può curare (cioè “prendersi cura” del paziente). In questo senso anche l’alimentazione e l’idratazione artificiali sono da intendere come mezzi ordinari e pertanto sempre doverosi: non si tratta infatti di “terapie” in senso proprio ma di semplici aiuti al sostentamento vitale, simili in questo al gesto di allattare un bimbo al seno o di imboccarlo col cucchiaio (non si può certo parlare di “accanimento” in questi casi).



In tale ottica dell’accompagnamento al morente, qualora non vi siano altri mezzi per alleviare il dolore, è sempre lecito l’uso degli analgesici, anche di quelli che, come la morfina, possono abbreviare la vita del paziente[6].

In questo caso infatti non si tratta di eutanasia, perché l’intenzione non è quella di uccidere l’ammalato ma quella di lenire il suo dolore.

Tecnicamente questo atto si giustifica tramite il principio del duplice effetto[7]: quando non ci siano vie alternative e l’intenzione sia buona, è lecito compiere un atto che porta ad un effetto buono (sedare il dolore) anche se inestricabilmente legato ad un effetto negativo (accorciare la vita del paziente), il quale non viene inteso, ma semplicemente “permesso”, “tollerato”.

Allo stesso modo, in mancanza di vie alternative, è lecito ricorrere ad analgesici che tolgono al paziente l’uso della coscienza, purché gli sia stato dato il tempo di adempiere i suoi obblighi civili e religiosi.



Ragioni a difesa dell’eutanasia: esposizione e critiche



In ambito utilitarista, i difensori dell’eutanasia si appellano al cosiddetto principio della qualità della vita (PQV): in base a questo principio sovente si fa una distinzione tra “vita umana”, in senso puramente biologico, e “vita personale”, intesa come vita di relazione. In questo modo si opera un’indebita distinzione tra essere umano e persona, sostenendo che non tutti gli esseri umani sono persone: chi non è in possesso di determinati requisiti (autonomia, autocoscienza, razionalità, capacità di relazione…) sarebbe un essere umano in senso biologico ma non una persona.

Ben nota è a questo riguardo la posizione di Engelhardt: “Non tutti gli esseri umani sono persone. Non tutti gli esseri umani sono autocoscienti, razionali e capaci di concepire la possibilità di biasimare e lodare. [...] Tali entità sono membri della specie umana ma non hanno status , in sé e per sé, nella comunità morale”[8].

Tornando al nostro argomento, in tale prospettiva un paziente in stato vegetativo persistente, un malato terminale privo di coscienza non sarebbero persone in senso pieno, e quindi praticare un gesto eutanasico su di loro non significherebbe praticare un omicidio ma compiere un gesto di pietà.

Di fronte a queste aberranti teorie – purtroppo non così infrequenti anche nel sentire comune – bisogna ribadire che “unico è l’atto esistenziale e personale che sostiene nell’uomo la vita vegetativa, sensitiva e relazionale”.[9]

Ogni essere umano è persona – con tutto il carico di rispetto e di dignità che questo termine comporta – per il semplice fatto che c’è, che esiste, non perché manifesti determinati funzioni o qualità. La mia vita ha un valore intangibile non in quanto sono bello, intelligente, razionale e accettato dagli altri, ma è esattamente il contrario: la mia vita personale, con l’eventuale carico di bellezza, intelligenza, razionalità ha valore semplicemente perché sono un essere umano[10].



Sempre in ambito utilitarista, appellandosi al PQV, alcuni autori sostengono che di fronte a certi malati terminali privi di coscienza si possa pronunciare un giudizio oggettivo, su basi medico – scientifiche, sulla mancanza di “qualità di vita” dei pazienti, i quali non raggiungerebbero gli standard necessari per raggiungere la qualifica di “vita personale”: in tali casi sarebbe lecito anche il ricorso all’ eutanasia non volontaria[11], perché si ritiene che gli stessi pazienti, se fossero coscienti, non riterrebbero “degna di essere vissuta” una vita nelle loro condizioni.

A questo proposito bisogna ricordare che la prima formulazione del concetto di “vita indegna” la si deve ad un’opera scritta nel 1920 da due eminenti professori tedeschi, il giurista Karl Binding e lo psichiatra Alfred Hoche, intitolata proprio Il permesso di annientare vita indegna di vita, dove tra gli altri vengono identificati come indegni di vivere i malati incurabili, i malati di mente, i bambini ritardati o deformi. Circa vent’anni dopo la Germania di Hitler, guidata dall’ideologia nazista, mise in pratica queste idee con due sistematici programmi di uccisioni, una rivolta ai bambini e una agli adulti. Quest’ultimo programma, denominato T4, portò all’uccisione diretta di circa 70000 tra il dicembre 1939 e l’agosto 1941[12].

Questo accostamento tra i moderni sostenitori dell’eutanasia e l’ideologia nazista non scandalizzi[13] e non sembri così ingiustificato e irrispettoso. Le uccisioni mediche pianificate vennero giustificate dal nazismo con due argomenti: il primo faceva riferimento all’idea di “razza pura”, verso il quale giustamente tutta la sensibilità moderna inorridisce, ma il secondo si basava sul quel concetto di Lebensunwertes Leben (“vita indegna di vita”), che continua a sopravvivere anche oggi nei fautori dell’EQV.



In ambito filosofico liberale, invece, i sostenitori dell’eutanasia si basano esclusivamente sul principio di autonomia o autodeterminazione: ciascuno sarebbe padrone del proprio corpo e libero di seguire le proprie autonome decisioni senza nessuna interferenza da parte degli altri individui e dello Stato, riconoscendo come unico limite la possibilità per ciascun altro di esercitare lo stesso diritto.[14]

Su questa base alcuni non accettano l’eutanasia non volontaria ma approvano l’eutanasia volontaria, sostenendo che ciò che conta è il libero consenso da parte del paziente, la cui volontà non può essere ostacolata[15].

Questa soluzione porta però con sé almeno due gravi problemi: in primo luogo ci si può chiedere quanto una tale decisione debba essere vincolante per il medico. Quest’ultimo dovrà essere ridotto ad essere un mero esecutore delle volontà eutanasiche del paziente o può avere un margine di scelta nel valutare, discutere, sconsigliare la volontà del suo paziente?

In secondo luogo: può essere davvero sempre giudicata attendibile la richiesta di morte da parte di un ammalato grave, o questa non risulterà piuttosto condizionata da una condizione di disagio psicologico e relazionale?

Mi spiego con un esempio[16]. Un nostro amico, in un momento particolarmente doloroso della sua vita, in cui crede di non avere possibilità di uscita, esce con una frase di questo tipo: “Non ce la faccio proprio più: meglio farla finita una volta per tutte!”. Difficilmente la nostra risposta potrà essere del tipo: “Hai ragione, meglio per te farla finita. Se vuoi ti do una mano”. Piuttosto è presumibile – e auspicabile – che la nostra reazione sarà quella di comprendere la ragione di un tale stato d’animo, di entrare con discrezione nella vita dell’amico: “Perché mi chiedi questo? Che cosa ti rende veramente così disperato?”.

Come già detto, la domanda di eutanasia il più delle volte non proviene da chi prova dolori fisici insopportabili[17] (oggi in gran parte controllabili grazie alle cure palliative) ma da situazioni di disagio psicologico ed esistenziale, talvolta causati anche dall’abbandono di chi sarebbe disponibile ad assecondare un’intempestiva richiesta eutanasica.



Legalizzare l’eutanasia?



Si potrebbe obiettare che il rifiuto dell’eutanasia è un semplice fatto di coscienza, ma lo Stato avrebbe comunque il dovere di legalizzare la “dolce morte” per chi eventualmente la volesse praticare.

In realtà la legalizzazione dell’eutanasia non può essere ridotta ad una questione di coscienza privata, ma ha una rilevanza eminentemente pubblica e sociale.

La legalizzazione permette infatti di dare la possibilità ad una persona diversa dal sofferente – un medico, un infermiere, un funzionario dello Stato… - di provocare la morte di un altro.

L’arte medica, il tacito rapporto medico – paziente ne uscirebbe così profondamente sconvolto: l’uomo in camice bianco che ho davanti non è più colui che, nei limiti umani, cura il paziente, ma diventa uno che, a certe condizioni, dà volontariamente e consapevolmente la morte.

Inoltre, gli esperti di bioetica parlano del pericolo del “pendio scivoloso” (slippery slope): una volta superato un principio etico assoluto (“non uccidere”) anche se solo per poco (“col consenso del paziente adulto”, ecc…) si rischia di imboccare un pendio scivoloso che spinge sempre più in basso. E’ esattamente quel che è successo in Olanda dove, una volta legalizzata l’eutanasia su richiesta, dopo qualche anno si è giunti a permettere, nella clinica universitaria della città di Groningen, l’eutanasia per i bambini al di sotto dei 12 anni, compresa l’eutanasia neonatale (evidentemente senza il consenso dei pazienti).



Il contesto culturale: la rimozione della morte e del dolore



Mentre ci avviamo verso la conclusione, è doveroso ricollocare il problema dell’eutanasia nell’attuale contesto culturale, profondamente segnato dalla rimozione della morte dell’essere umano e dal rifiuto di dare ad essa un possibile significato: “La morte è diventata un tabù, una cosa innominabile […]. Una volta si raccontava ai bambini che nascevano sotto un cavolo, però essi assistevano alla grande scena degli addii, nella camera e al capezzale del morente […]. Oggi i bambini vengono iniziati, fin dalla più tenera età, alla fisiologia dell’amore e della nascita, ma, quando non vedono più il nonno e chiedono perché, in Francia si risponde loro che è partito per un paese lontano, e in Inghilterra che riposa in un bel giardino dove cresce il caprifoglio. Non sono più i bambini a nascere sotto un cavolo, ma i morti a scomparire tra i fiori”[18]

Probabilmente il rifiuto di guardare con serenità alla morte dell’essere umano deriva dal rifiuto di dare un qualsivoglia significato all’esperienza del dolore; la cultura contemporanea, in effetti, sembra aver fatto proprio il dogma laico secondo cui la sofferenza “toglie ogni possibile dignità”[19].

Ma chiediamoci: è proprio vero che la sofferenza ha il potere di disintegrare, di annullare la dignità della vita di una persona? Certo la sofferenza è sofferenza, in sé è un male da debellare o lenire, ma questo non significa che il dolore annulli o diminuisca la dignità della vita della persona.

Anzi, alla “scuola della sofferenza” c’è chi ha appreso tanto, a rivedere ciò che davvero conta nella vita e a riscoprire il senso del limite che caratterizza l’essere umano. Imponendoci di vivere un rapporto di dipendenza radicale, di bisogno vitale dell’altro, la sofferenza ci costringe a riscoprire in qualche modo l’umiltà dei bambini, a non vergognarci dell’aiuto degli altri: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Matteo 18, 3).



La prospettiva cristiana



Il senso del dolore, pur rimanendo in se stesso un mistero, è stato enormemente illuminato ed elevato all’interno dell’orizzonte cristiano[20]. In questa prospettiva, infatti, il Figlio di Dio non solo si è mostrato instancabile consolatore e guaritore verso tutti i malati e i sofferenti, ma ha voluto Egli stesso condividere fino in fondo l’umana sofferenza, offrendo liberamente, con la Sua dolorosa passione e morte, la salvezza per ogni uomo. In questo “folle” gesto d’amore, Cristo ha liberato l’uomo dal male ultimo e dalla sofferenza definitiva, ossia la perdita della vita eterna, la separazione da Dio, effetto del peccato delle origini. In questo modo nella Divina Persona di Cristo la sofferenza assume un inedito significato redentivo e salvifico, che si è pienamente dispiegato con la Sua Risurrezione, segno definitivo della vittoria sulla morte e sul male.

All’interno di questo Mistero di salvezza, il cristiano è chiamato a compartecipare alla Passione di Cristo, il suo dolore è trasfigurato e nobilitato se offerto e unito alla sua Croce; in questo senso vanno intese le celebri parole di S. Paolo: “completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col. 1, 24).

La sofferenza umana, se vissuta in comunione con la Croce di Cristo, può davvero trasfigurarsi in esperienza arricchente e colma di significato, come quella vissuta dal grande poeta francese Paul Clodel, che ormai vecchio e malandato, incontrando gli universitari parigini diceva: “Io sono un rudere d’uomo, non so parlare più, non ci vedo più, non ci sento più, non cammino più. Però, nonostante la paralisi, riesco ancora a fare una cosa che mi dà l’idea di essere uomo: riesco ancora a mettermi in ginocchio”.



[Filippo Bergonzoni – Docente di filosofia e scienze sociali nei licei – Membro del comitato scientifico del Centro di Bioetica “A. Degli Esposti” di Bologna]

































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[1] “L’uomo, nella sua sofferenza, rimane un mistero intangibile” (Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Salvifici Doloris).

[2] A livello etimologico il termine deriva dal greco eu-thànatos che significa “dolce morte”. Il primo a introdurre il termine nelle lingue moderne è stato Francis Bacon nel IV libro del De Augmentis Scientiarum (1623), intendendo però con questo termine l’intervento del medico sul paziente (generalmente allo stato terminale), non al fine di dargli la morte, ma per assisterlo ed aiutarlo a “morire bene”. La sua accezione di significato quindi, in sintonia con tutta la tradizione antica ippocratica, è più vicina a quella che nel testo chiamiamo “accompagnamento al mortente”.

Un’analisi storico – filosofica del termine molto accurata è offerta da Massimo Reichlin, L’etica e la buona morte, Edizioni di Comunità, Torino, 2002, pp. 5 – 46.

[3] Dichiarazione sull’eutanasia della S. Congregazione per la dottrina della fede, 5 Maggio 1980.

Cfr. anche negli stessi termini Evangelium Vitae n. 65.

[4] Oltre a questo parametro oggettivo (medico – scientifico) basato sulla proporzionalità – sproporzionalità delle terapie, Elio Sgreccia (Si dà la morte anche omettendo le cure, in “Corriere della Sera”, 23/01/07) segnala un secondo criterio di carattere soggettivo basato sulla volontà del paziente, il quale, in base alle sue condizioni fisiche, psicologiche, sociali ed economiche, può giudicare sul carattere ordinario o straordinario che le terapie assumono nel suo caso. In questo modo triplice diventa la casistica: terapie proporzionate e ordinarie (c’è l’obbligo morale di accettarle); terapie sproporzionate (c’è l’obbligo di evitarle, ordinarie o straordinarie che siano), terapie proporzionate e straordinarie (non sono moralmente obbligatorie, possono essere lecite solo su volontà del paziente). Cfr. su questa dottrina M. Calipari, Curarsi e farsi curare: tra abbandono del paziente e abbandono terapeutico” (Ed. S. Paolo, Milano, 2006).

[5] La dottoressa Elisabeth Kubler- Ross, tanatologa di fama mondiale, dopo aver trascorso decenni accanto ai malati terminali ha scritto: “Durante i miei vent’anni di esperienza ho lavorato con migliaia di pazienti; soltanto una volta un moribondo mi ha chiesto un’overdose. Abbiamo cercato di capire da dove venisse quel suo desiderio e abbiamo capito che era la madre a spingerlo verso quella scelta. Bisogna sempre cercare di capire qual è il problema” (E. Kubler-Ross, Impara a vivere impara a morire. Riflessioni sul senso della vita e sull’importanza della morte, Armenia, Milano 2001, p. 40). Mi si permetta di aggiungere anche la testimonianza del Prof. Aldo Mazzoni, medico e coordinatore scientifico del Centro di Bioetica “A. Degli Esposti”, il quale ha più volte dichiarato, dopo aver passato molti anni accanto ai malati terminali di Aids, di non aver mai ricevuto richieste di eutanasia, ma semmai di assistenza, conforto, affetto.

[6] Storicamente questo giudizio è stato pronunciato per la prima volta da Pio XII nel suo Discorso ai partecipanti al IX Congresso della Società Italiana di Anestesiologia (1957).

[7] L. Rossi, Duplice Effetto (Principio di), in L. Rossi e A. Valsecchi (a cura di ), Dizionario Enciclopedico di Teologia Morale, Paoline, Cinisello Balsamo 1985, pp. 293 – 308.

[8] H. T. Engelhardt, Manuale di Bioetica, Il Saggiatore, Milano, 1991, p. 126.

[9] E. Sgreccia, Manuale di Bioetica, Vita e Pensiero, Milano, Volume I, p. 484.

[10] Aggiungo un esempio didattico che ho appreso dalla Prof.ssa M. L. Di Pietro. L’errore di molti autori utilitaristi, prima ancora che di tipo etico, è di tipo logico – grammaticale: dimenticano che il termine “persona” è un sostantivo e non un aggettivo. Non posso dire: “Tu sei bella, intelligente , simpatica…e persona!”, proprio perché quest’ultimo è un sostantivo, fondato sull’essenza della natura umana. E’ sulla dignità della persona, ontologicamente connessa ad ogni essere umano, che eventualmente si fondano tutti gli altri aggettivi (bellezza, simpatia, intelligenza…).

[11] E’ questa la posizione, per es. di H. Kuhse, The Sanctity-of-Life Doctrine in Medicine. A Critique, Clarendon Press, Oxford,1985.

[12] La sigla “T4” sta per Tiergarten 4, l’indirizzo dove si trovava la sede della Cancelleria operativa di Berlino. Cfr. R. J. Lifton, I medici nazisti, Bur, Milano, 2003.

[13] Dichiara invece di non sopportare questo accostamento H. Kung (Della dignità del morire. La difesa della libera scelta, Rizzoli, Milano 1996, p. 101, nota 45), teologo per altro noto per le sue posizioni eterodosse rispetto al Magistero della Chiesa.

[14] Il riferimento obbligato è naturalmente a J. S. Mill, On Liberty (1859) [trad. it. Saggio sulla libertà, Il Saggiatore, Milano 1991]. In campo strettamente bioetico si veda H. T. Engelhardt, L’autonomia come principio cardine della bioetica contemporanea, in Cattorini P, D’Orazio E., Pocar V (a cura di), Bioetiche in dialogo, Zadig. Milano, 1999, pp. 111 – 124.

[15] Per i pazienti non più in grado di decidere autonomamente, secondo alcuni autori, bisognerebbe affidarsi alle eventuali decisioni anticipate espresse dal soggetto, o al giudizio dei familiari, o, al limite, alla valutazione di un apposito comitato etico. Così, per esempio, E. Lecaldano, Bioetica. Le scelte morali, Laterza, Roma – Bari, 1999, pp. 125 – 126.

[16] Cfr. M. Pelliconi, Diventerete come Dio. La bioetica e l’attualità della primordiale tentazione, Itaca, Castel Bolognese (Ra), 1996, p.126.

[17] Questo è l’argomento pietoso che spesso, con una punta di retorica, viene sostenuto dai fautori dell’eutanasia: “I pazienti terminali spesso soffrono dolori così terribili da essere a stento compresi da chi non ha mai avuto la ventura di provarli. Le loro sofferenze possono essere così terribili che non ci piace nemmeno leggerne o pensarci; rifuggiamo persino dalla loro descrizione” (J. Rachels, La fine della vita, Edizioni Sonda, Milano, 1989, p. 160).

[18] Ph. Ariès, Storia della morte in Occidente dal Medioevo ai nostri giorni, Rizzoli, Milano, 1989, pp. 213 – 214.

[19] S. Foglia, Il posto delle fragole. La scelta di morire con dignità, Armenia, Milano, 2002, p. 41

[20] Sul senso del dolore cristiano è naturalmente fondamentale la Lettera apostolica Salvifici doloris (11/2/1984) di Giovanni Paolo II, ma per la sua straordinaria profondità e sensibilità umana e pastorale segnalo anche il libretto di Don Novello Pederzini, Per soffrire meglio Per soffrire meno, ESD, Bologna, 1998.

francescobernardini4c ha detto...

io sono favorevole all'eutanasia, nel caso questa sia utile a evitare sofferenze inutili e ad abbreviare una vita ormai pregiudicata da una malattia incurabile. Sono anche favorevole all'istituzione del testamento biologico, che può essere fatto a 18 anni ed esprime le volontà della persona in caso che sopraggiunga una malattia che renda il soggetto incapace di esprimere la propria volontà.

My d. ha detto...

Penso che non spetti a noi decidere della vita degli altri:chi richiede l'eutanasia è sicuramente una persona che soffre non tanto per la malattia ma nel vedere la propria vita scorrere inesorabilmente senza poter far nulla.E si chiede:è meglio che continui a vivere in questo modo o ponga fine alla mia sofferenza magari sperando nell'aldilà(chi è credente)?In conclusione sono favorevole all'eutanasia...In fondo Dio ci ha dato il libero arbitrio:quindi possiamo tenerci stretti la vita oppure togliercela.

EC4c ha detto...

Se la vita è un dono, noi abbiamo il diritto esclusivo di farne ciò che reputiamo più giusto, poiché appartiene solo a noi, solo a noi spettano le decisioni concerni essa.
Con questo sono ovviamente favorevole all’eutanasia perché ritengo che opporsi in modo costante contro la morte sia una forma di arroganza nei confronti delle vita stessa e della natura, la morte è ciò che più di tutto può farci affrontare ed apprezzare la vita,non è un incognita ma l’unica certezza alla fine del nostro viaggio

Teresa ha detto...

E' difficile dare un'opinione in merito a un argomento non vissuto in prima persona. Penso che una persona malata, senza alcuna possibilità di guarigione, che chieda di morire abbia delle ragioni molto gravi; la sofferenza fisica subita è tale da cancellare ogni volontà di continuare a vivere (cioè a provare dolore).
Ma nel caso in cui ci sia la speranza di superare la malattia, oppure che essa non causi atroci sofferenze sono dell'opinione che non sia diritto dell'uomo stabilire quando una vita sia degna di essere vissuta o meno.
Personalmente sono contraria all'accanimento terapeutico se la persona interessata è contraria; nei casi di etrema gravità, a cui prima facevo riferimento, ritengo sia possible prendere in considerazione la possibilità di interrompere la vita con un intervento dell'uomo.

Mattia Bonanno ha detto...

Il problema dell'eutanasia è una questione molto complicata da trattare. Io personalmente sono sia favorevole che contrario, nel senso che non si può essere favorevoli a decidere della morte di un essere umano, ma allo stesso tempo non si può minimamente pensare che questa persona debba continuare a soffrire per una grave malattia che la costringe alla vita vegetale. Su una cosa però sono fermamente convinto: quando questa persona, ridotta allo stremo delle forze e capace di comprendere la tragica situazione che la ha colpita, chiede che le sia tolta la vita, ovvero chiede che si metta fine alle sue sofferenze, allora sono favorevole allo "staccare la spina".

luca_b_4c ha detto...

È molto difficile riuscire a conciliare posizioni differenti a partire dai principi dai quali partono: la questione della vita umana se frutto del soffio vitale divino o se appannaggio della pura ragione, che però è interna all'uomo. Facendo mio per la maggior parte, il secondo punto di vista, non posso che considerare il problema dell'eutanasia in relazione alla libertà dell'individuo. Dal punto di vista legislativo è pertanto accettabile dare la possibilità ad una persona di scegliere volontariamente di disporre della sua vita.
È altrettanto vero che una singola persona può sbagliarsi anche su scelte così importanti.
Dal punto di vista etico personale, pur senza averne esperienza, non vorrei mai applicare delle misure di eutanasia perché malgrado le sofferenze, la vita è comunque l'unica realtà che ho a disposizione, pertanto non penso sia il caso di accorciarla volontariamente.

Marco 4c tvb ha detto...

Salve vorrei esprimere il mio commento a riguardo del tema posto dalla prof.ssa Liliana.

Io penso che l'eutanasia debba essere un diritto per chiunque la voglia, e quando dico la voglia intendo "sia capace di intendere e volere". Il problema potrebbe nascere però se il paziente non fosse in grado di comunicare le proprie intenzioni.. in questo caso non so che soluzioni si possano adottare.

La mia simpatia verso la posizione anti-cattolica non proviene da una rivalità verso la Santa Chiesa bensì da un idea personale molto relativa di "Senso della Vita".
L'essere umano ha capacità di intendere e volere al di la del mero istinto animale il quale prevede solamente la sopravvivenza e la riproduzione dell'individuo.
Nel caso dell'uomo invece vi è una volontà che supera l'istinto animale: ne è un esempio l'astinenza dei cattolici da rapporti sessuali (il che è completamente anti-naturale) come anche il suicidio.

Non vedo colpa nel dottore/familiare che "stacca la spina" a colui che non vuole più vivere, come non vedo colpa nella corda che permette all'impiccato di attuare il suo piano disperato.


Questa è complessivamente la mia posizione,
approfitto dell'occasione per fare i miei modesti complimenti al reverendissimo Francesco Bernardini di 4c che ancora una volta è riuscito a stupirci con la sua immensa capacità critico-analizzativa.

saluti

Bsd89 ha detto...

Credo sia giusto che una persona sia libera di scegliere. Partendo da quest'idea è scontato che sono favorevole ad una legge per legalizzare l'eutanasia. Bisogna sempre però mettere dei limiti, perchè come sempre altrimenti le persone non sanno accontentarsi ed esagerano..si rischierebbe di arrivar a parlare di eutanasia per un'unghia rotta!! Comunque, dal mio punto di vista non reputo sbagliato che un malato TERMINALE, la cui morte è ormai assicurata, possa scegliere se:
-portar a termine la propria vita in modo "naturale", con tutto quello che comporta;
-porre termine alla sofferenza, staccare la spina e dire addio ai vicini, volendo lasciare un ricordo di sè abbastanza integro.
Decisamente la possibilità di decidere consapevolmente della propria vita deve essere dato solo alle persone la cui morte è sicura, a quelle che andranno in contro a dolore e soprattutto bisogna essere sicuri che questi individui siano LUCIDI e CONSAPEVOLI!!!
Poi non capisco cosa, questa eventuale legge, toglierebbe a quelli che non approvano: fino a prova contrarie darebbe una possibilità in più a quelli che sono daccordo e lascerebbe invariata la situazione degli altri.Unica obiezione che invece possono fare è che dei loro cari potrebbero usare l'eutanasia e a loro non va..ma sinceramente reputo una frase del genere egoista al 1000%, pensare a sè dimenticando il male altrui.
A chi tira in mezzo discorsi come solo Dio può decidere della nostra vita..ecc..ecc..bla bla bla..direi: scusate eh ma sente Dio il dolore insopportabile o il malato?!..chi sa se vuole continuare a vivere o no?!..chi è che oltre fisicamente soffre anche e soprattutto moralmente per il suo stato?!.....rispondete a questo e provate a pensare chi ha il diritto di scegliere...
E' comprensibile che non si voglia dire addio ad una persona cara però...è più comprensibile non volerla vedere soffrire...e volerle lasciare un minimo di dignità(in certi casi).

luck ha detto...

vita sofferta o morte dolce?
questa è la base su cui si fonda l'atto dell'eutanasia.
ultimamente i casi di eutanasia al livello nazionale si sono moltiplicati.
in questo periodo si sente spesso di persone ridotte a semi-vegetali che richiedono la "dolce" fine dei propri, sofferti giorni di vita.
ritengo giusto credere che il paziente abbia la facolta e il diritto di poter decidere della propria vita, quando essa non può essere più gestita autonomamente dalla persona stessa, ma aiutata da macchine che ne allungano l'agonia.
quindi se il paziente fa richiesta legale di porre fine alla sua vita, sono dell'opinione che questa debba essere accolta affinche la persona possa compiere e realizzare il suo ultimo ed estremo desiderio in un mondo il quale l'ha privato del bene più grande:vivere una vita.

Gaia4a ha detto...

Si pùo considerare vita lo stare attaccati ad una macchina senza la quale non potremmo più esistere?
Io non credo. Quando si tratta di una persona che non è in grado di prendere una decisione, ritengo che il medico non possa farlo per lei. Ma se è il malato a volerlo, significa che un motivo deve pur esserci se sceglie questa strada. Dio ci ha dato la vita, ma non per permetterci di vivere in eterno. Nessuno è eterno e purtroppo non lo possiamo cambiare. Dobbiamo invece fermarci a riflettere e invece di pensare solo all'eutanasia come omicidio, provare a chiedersi: perchè una persona arriva a desiderare la morte? quanto deve aver sofferto?

linz 4A ha detto...

per alcuni un dolore che non puo essere sedato non è la principale ragione per desiderare di morire,ma piuttosto la mancanza dell'indipendenza,della dignità e delle proprie capacità.non possiamo essere costretti a vivere se vogliamo morire;se abbiamo un diritto alla vita abbiamo anche un diritto alla morte.la legge dello stato o la chiesa non ha legittimità a decidere sugli aspetti piu intimi della vita e della morte.Non apparteniamo nè a dio nè allo stato...io sono mia

adri4a ha detto...

Molti hanno considerato il problema dell'eutanasia dal punto di vista del paziente,tenendo presente la libertà individuale ed il diritto di scegliere cosa fare della propria vita,ma secondo me si potrebbe riflettere anche sul ruolo del medico,che andrà poi a compiere il gesto effettivo "staccando la spina".Se si trattasse solo del paziente e della sua volontà di morire, i dibattiti sarebbero infatti limitatial campo etico e non interesserebbero l'ambito giuridico (sarebbe un suicidio).Secondo me si tratta quindi di stabilire quale sia la responsabilità del dottore in tutto ciò.Lo scopo del medico è quello di restituire la salute e di alleviare le sofferenze...ma quando queste due missioni entrano in conflitto come si deve comportare? Credo che per un dottore questa non sia affatto una scelta facile: preservare la vita umana o acconsentire alla volontà del paziente di porre fine alla sua esistenza fatta solo di dolore? La decisione è assolutamente personale e il peso sulla coscienza che ne deriva basta secondo me a condizionare poi tutta la vita del medico, senza che tale atto sia anche perseguibile giuridicamente.Io non sono favorevole all'eutanasia, ma sostengo l'importanza di una legge che la legalizzi perchè,come ha detto sweet.pepper, "una legge del genere non toglierebbe nulla alle persone contrarie, ma darebbe un'opportunità a chi si sente intrappolato in un corpo che non gli appartiene"

giù4a ha detto...

non so se sono favorevole o meno all'eutanasia. so però che la vita è un grande dono, so che da sempre l'uomo cerca un rimedio per sfuggire alla morte ma che non l'ha mai trovato, la morte è e deve essere secondo me una condizione naturale. noi non possiamo decidere come e quando, è l'unica cosa che non possiamo controllare. non è giusto quindi secondo me decidere di porre fine alla propria vita,perchè ciò deve avvenire naturalmente. ma se penso poi a quei malati costretti su un letto d'ospedale ad essere sospesi tra la vita e la morte e tenuti in vita da un respiratore artificiale mi chiedo: e questa è una condizione naturale? la risposta la conosco,ma mi spaventa un pò ammetterla... se mi trovassi nella situazione di dover aiutare quel malato non so se lo lascerei soffrire ancora per paura o se lo aiuterei a uccidere se stesso provando poi rimorso per quello che ho fatto.